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L’esterovestizione 

L'esterovestizione è un fenomeno elusivo che consiste nella dissociazione tra la residenza formale e quella sostanziale delle persone giuridiche. Diverse sono le conseguenze sul piano fiscale, amministrativo e penale.

Indice dei Contenuti

Con il termine esterovestizione si intende il fenomeno dissociativo tra residenza formale e residenza sostanziale, posto in essere al fine di beneficiare di un regime fiscale più vantaggioso rispetto a quello del paese di effettiva appartenenza per mezzo di c.d. “brass-plate companies” o “letterbox companies”.  

Ciò può configurare una pratica abusiva qualora il trasferimento della residenza fiscale all’estero risulti meramente artificioso e privo di un effettivo radicamento della società nello Stato estero (sul punto Cass., sent. n. 33234/2018). 

È evidente come il tema in parola si intersechi e presupponga quello della residenza fiscale — a cui si rimanda — perché è proprio a partire dai criteri di collegamento della persona giuridica con il territorio, sanciti all’art. 73 TUIR, che si possono comprendere le ipotesi in cui una dissociazione tra sede formale e sede sostanziale è un mero artifizio. 

Le presunzioni legali relative di residenza nell’ordinamento italiano – Art. 73 comma 5-bis e 5-ter TUIR 

Ai sensi dell’art. 73 commi 5-bis e 5-ter TUIR, l’esterovestizione societaria si riscontra in tutti i casi in cui, al fine esclusivo di trarre un vantaggio fiscale, una società dichiara di risiedere (formalmente) all’estero, anche se, in alternativa: 

  • abbia un collegamento effettivo con l’Italia secondo i criteri del comma 3 (sede legale, sede della direzione effettiva o sede della gestione ordinaria in via principale); ovvero 
  • detenga partecipazioni di controllo in una società residente in Italia e sia a sua volta controllata, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato (art. 73 comma 5-bis); ovvero 
  • detenga partecipazioni di controllo in una società residente in Italia e sia amministrata da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato (art. 73 comma 5-bis). 

I commi 5-bis e 5-ter dell’art. 73 del TUIR introducono una presunzione legale relativa di residenza fiscale in Italia per società ed enti c.d. “esterovestiti”, con conseguente inversione dell’onere della prova a loro carico.  

Come precisato dalla Circolare n. 28/E del 2006, per vincere tale presunzione il contribuente “dovrà dimostrare, con argomenti adeguati e convincenti, che la sede di direzione effettiva della società non è in Italia, bensì all’estero.”  

Il fine perseguito da tale presunzione è quello di riavvicinare e ricostruire, perlomeno sul piano sostanziale, i criteri della residenza e della fonte, permettendo allo Stato della fonte di esercitare la propria pretesa impositiva su cespiti solo artificiosamente esteri. 

Pertanto, per evitare possibili contrasti tra le presunzioni legali relative e il principio comunitario di libertà di stabilimento (art. 49 TFUE) occorre accertare, caso per caso, che l’operazione persegua come unico scopo l’ottenimento di un ingiustificato vantaggio fiscale. La Cassazione ha infatti ribadito che è conforme al diritto scegliere, di fronte a due possibilità di conduzione degli affari, quella che comporta un minor carico fiscale e un maggior vantaggio economico (cfr. Cass. civ., Sez. V, 02/10/2024, n. 25917).  

In breve, non è illecito costituire una società in uno Stato scelto solo per i benefici fiscali conseguibili. Occorre, però, che in quello Stato sia effettivamente svolta un’attività economica concretamente rilevabile e non sia una semplice velina per simulare una residenza in un luogo con il quale non vi è alcun collegamento di fatto. Nulla osta a che si benefici di condizioni più vantaggiose, basta che qualora si operi la scelta di stabilire la sede in un tal paese – cosa affatto lecita – in esso si svolga qualche concreto e tangibile genere d’attività. 

Modalità di inserimento delle società in un mercato estero 

Può darsi che una persona giuridica decida di espandersi in Stati diversi da quello di origine, così allargando le proprie reti. Quale che ne sia il fine, ciò può avvenire attraverso tre modalità: 

  • costituzione di un soggetto economico controllato («subsidiary») fornito di personalità giuridica autonoma e distinto dalla “società-madre”; 
  • costituzione di una filiale/stabile organizzazione («branch»), sede secondaria con rappresentanza stabile ma priva di personalità giuridica; 
  • costituzione di un ufficio di rappresentanza («rep office»). 

Un’eventuale esterovestizione societaria può incorrere solo in presenza di una subsidiary, dal momento che tale soggetto è il solo ad avere personalità giuridica autonoma. Diversamente, la stabile organizzazione e l’ufficio di rappresentanza non possono integrare ipotesi di esterovestizione.  

È opportuno ribadire che con riferimento all’apertura di una stabile organizzazione vengono in considerazione le singole normative domestiche dei vari Stati; risulta dunque fondamentale, prima di accedere ad un mercato estero, verificare puntualmente la disciplina nazionale applicabile. 

La natura dell’esterovestizione: abuso del diritto o elusione fiscale? 

Se in passato la giurisprudenza di legittimità aveva pacificamente qualificato l’esterovestizione societaria quale fenomeno intrinsecamente abusivo, di recente si è assistito a un mutamento degli orientamenti della Suprema Corte di Cassazione che rinviene nella pratica della esterovestizione non più e non già un abuso del diritto, bensì una forma di elusione fiscale.  

In precedenza, la Corte riteneva che il vantaggio fiscale indebito costituisse il tratto distintivo dell’esterovestizione e, in quanto espressione di abusività, ne comportasse automaticamente la riconduzione alla categoria dell’abuso del diritto (cfr. Cass. sentenze n. 4463/2022, n. 7454/2022 e n. 8297/2022). Tale orientamento risultava tuttavia poco in armonia con il principio di libertà di stabilimento stabilito a livello continentale dall’art. 49 TFUE

Nella sentenza Cadbury vs. Schweppes C-196/04 la Corte di Giustizia Europea stabiliva tre fondamentali principi di diritto in materia di libertà di stabilimento: 

  • è legittimo localizzare la propria residenza in uno Stato estero al solo fine di trarre un vantaggio fiscale. Questo non costituisce ex se un abuso del diritto; 
  • il vantaggio fiscale non è indebito ex se, assumendo tale carattere solamente in presenza di condizioni che ne manifestino l’abusività; 
  • le restrizioni alla libertà di stabilimento sono ammesse soltanto se atte a contrastare “costruzioni di puro artificio”, intendendosi con tale formula le società estere prive di effettiva sostanza economica e la cui unica finalità è un indebito vantaggio economico ottenuto dalle più generose condizioni fiscali di un altro stato europeo. 

Adeguandosi a questi principi, la Corte di Cassazione ha dunque rivisto il precedente orientamento, escludendo l’indebito vantaggio fiscale dal novero degli elementi costitutivi dell’esterovestizione (cfr. Cass. n. 23150/2022, n. 11709/2022 e n. 11710/2022) e riconducendo, in conseguenza, la stessa all’alveo dei fenomeni elusivi piuttosto che abusivi.  

Ne consegue, sul piano pratico, che il suo accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria avverrà attraverso elementi indizianti idonei a dimostrare il carattere puramente artificioso o fittizio dello stabilimento nello Stato estero. Pertanto, ai fini probatori, non si richiede più la dimostrazione dell’ottenimento di un vantaggio fiscale indebito che degrada a semplice elemento indiziante. Detta diversamente, il vantaggio può essere (e normalmente è) una conseguenza dell’esterovestizione, ma il vulnus della stessa si rinviene nella mancanza di genuinità del nesso fra persona giuridica e Stato di residenza. 

Conseguenze dell’esterovestizione societaria 

Qualora la società non riesca a fornire gli elementi di prova contraria necessaria, la diretta conseguenza è che quest’ultima verrà considerata fiscalmente residente nel territorio dello Stato italiano. Tale riqualificazione comporta l’assolvimento di tutti gli obblighi sostanziali e strumentali che l’ordinamento prevede per le persone giuridiche residenti (Circ. n. 28/E/2006). 

Le società risultanti esterovestite saranno da considerare residenti fiscalmente in Italia e, pertanto, tassate per i redditi ovunque prodotti, secondo il principio della worldwide taxation. 

Inoltre, ne consegue che l’Amministrazione finanziaria italiana ricalcolerà l’imposizione della società considerando retroattivamente tassabili in Italia tutti i redditi della società, con conseguente obbligo di pagamento delle imposte arretrate oltre ad interessi di mora e sanzioni amministrative

A ciò si aggiunge la possibile negazione dei benefici fiscali di cui eventualmente la società considerata esterovestita abbia usufruito. 

Anche per quanto riguarda le sanzioni, le società sono soggette a quelle ordinariamente applicabili ai soggetti residenti in Italia (vd. infra).  

Esempi di prova contraria che la persona giuridica “esterovestita” può opporre 

Si è detto in apertura di questa analisi che l’ordinamento italiano, per rimediare alla proliferazione di poco genuine residenze estere, ha previsto delle presunzioni relative. Occorre qui precisare nello specifico quali circostanze legittimino l’attività istruttoria dell’Agenzia delle Entrate volta ad accertare l’elusività della residenza, nonché le prove contrarie attraverso le quali il contribuente può liberarsi dalle presunzioni predette. 

A fronte di elementi indiziari che lascino desumere una simulazione di residenza fiscale all’estero, l’Agenzia delle Entrate può dare avvio ad un’attività istruttoria che deve raccogliere “in modo circostanziato e puntuale” elementi di collegamento che facciano desumere il radicamento della società nel territorio italiano ai sensi dell’art. 73 TUIR.  

Viceversa, il contribuente accusato di presunta “esterovestizione” può presentare prova contraria nelle forme e nei modi indicati nella nota prot. n. 39678 del 19 marzo 2010. 

Gli elementi probatori utilizzabili dal contribuente non sono sottoposti a nessun limite formale o sostanziale, non essendoci – ad oggi – un elenco tassativo di “circostanze esimenti”, proprio al fine di non limitare la libertà di prova, potendosi allegare qualsiasi elemento di prova utile a dimostrare l’effettività dello stabilimento all’estero.  

Più nello specifico, richiamando la Circ. n. 312/E del 2007 si afferma che la dimostrazione della “prova contraria” può avveniresulla base non solo del dato documentale, ma anche sulla base di tutti gli elementi concreti da cui risulti, in particolare, il luogo in cui le decisioni strategiche, la stipulazione dei contratti e le operazioni finanziarie e bancarie siano effettivamente realizzate”; esemplificativamente: 

  • documenti che dimostrano il periodico svolgimento delle riunioni del Consiglio di amministrazione nella sede legale della società (verbali delle riunioni formalmente adottate all’estero, biglietti aerei/ricevute di alberghi che attestano lo spostamento dei soci all’estero); 
  • atti volitivi che provano l’effettiva gestione della società da parte dei membri del CdA (progetti, interventi, decisioni sull’andamento della persona giuridica); 
  • documenti che accertano la gestione operativa della società all’estero (direttive interne, contratti di natura commerciale o finanziaria, corrispondenza delle trattative commerciali). 

Risvolti sanzionatori dell’esterovestizione 

L’esterovestizione è uno dei meccanismi più comuni attraverso cui le società cercano di sottrarsi alle pretese tributarie. Qualora accertata, essa può dar luogo, per il contribuente, a sanzioni di tipo tributario-amministrativo e penale previste dall’ordinamento. 

  1. Sanzioni amministrative 

Si applicano in caso di:  

  • violazioni relative alla dichiarazione delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive (art. 1 d.lgs. n. 471/1997, odierno art. 27 T.U. delle sanzioni tributarie, amministrative e penali per cui si veda infra), con sanzione del 120% delle imposte;  
  • violazione degli obblighi relativi alla contabilità (art. 9, comma 1, d.lgs. 471/1997, odierno art. 34 T.U.), con sanzione da 1.000 € ad 8.000 €;   
  • violazioni relative alla dichiarazione dell’imposta sul valore aggiunto e ai rimborsi (art. 5 d.lgs. 471/1997, odierno art. 30 T.U.), con sanzione del 120% dell’imposta dovuta; nonché  
  • sanzioni in materia di anagrafe tributaria e codice fiscale (art. 13, comma 1, lett. a), D.P.R. 605/1973, odierno art. 63 T.U.), con sanzione da 103 € a 2.065 €. 

b) Sanzioni penali 

Sebbene l’esterovestizione non costituisca un’autonoma fattispecie delittuosa, essa potrebbe nondimeno determinare risvolti penali per il contribuente. In particolare, essa può configurare:  

  • dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. 74/2000, odierno art. 74 T.U.), punito con la pena della reclusione da 4 ad 8 anni
  • dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 d.lgs. 74/2000, odierno art. 75 T.U. delle sanzioni amministrative, tributarie e penali).  

È punito con la reclusione da 3 ad 8 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compie operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero si avvale di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria.  

La condotta elusiva dell’esterovestizione potrebbe ricondursi agli “altri mezzi fraudolenti” atti a indurre in errore l’amministrazione finanziaria, integrando così il reato di cui all’art. 3. Per “mezzi” si intendono un insieme di condotte poste in essere per il raggiungimento dell’indebito vantaggio fiscale.  

Tali condotte sono, poi, “fraudolente” nella misura in cui sono idonee a trarre in inganno gli organi competenti (Cass. pen., n. 50308/2014). Si tratta, a ben vedere, non di un reato di evento ma meramente di pericolo, come tutti i reati riconducibili al genus della frode: non occorre che l’amministrazione sia indotta effettivamente in errore, quanto piuttosto che gli artifizi, documenti etc. siano astrattamente idonei ad indurla;  

  • dichiarazione infedele (art. 4 d.lgs. 74/2000, odierno art. 76 T.U.), in caso di inserimento in dichiarazione di elementi attivi inferiori o elementi passivi fittizi, per la quale la pena prevista è quella della reclusione da 2 anni a 4 anni e 6 mesi
  • omessa dichiarazione (art. 5 d.lgs. 74/2000, odierno art. 77 T.U.): violazione dell’obbligo di dichiarazione, qualora l’imposta evasa sia superiore a 50.000 €, punito con la pena della reclusione da 2 a 5 anni

La disciplina dei reati tributari è, oggi, raccolta all’interno del T.U. delle sanzioni tributarie amministrative e penali (d.lgs. 173/2024) che dispiegherà i suoi effetti a partire dal 1/01/2026. Il T.U. non ha modificato le fattispecie penal-tributarie ma si è soltanto limitato a un riordino della materia già contenuta all’interno del d.lgs. 74/2000. Di conseguenza, la disciplina suddetta continua, nella sostanza, a trovare applicazione.  

Esterovestizione e rapporto con diritto convenzionale 

Una volta accertata l’esterovestizione e l’effettiva residenza della società in Italia, potrebbero sorgere casi di doppia residenza fiscale. Questi potranno essere risolti secondo le disposizioni convenzionali applicabili, in particolare l’art. 4 del Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni OCSE. 

Va osservato, a tal riguardo, che l’art. 29 para. 9 del Modello OCSE (clausola generale anti – abusi) riconosce espressamente che un beneficio non potrà essere erogato per un cespite o parte di cespite se vi è ragione di credere che, sulla base dei fatti e delle circostanze rilevanti, la principale finalità di accordi e transazioni concluse dalla società stessa fosse quella di ottenere un indebito vantaggio fiscale. Tuttavia, il beneficio potrà essere comunque concesso se, anche in presenza delle suddette circostanze, il suo ottenimento risulti coerente con l’oggetto e lo scopo della Convenzione. 

Seppur cripticamente, dunque, la Convenzione indica due principi: 

  • non è in sé illecito trasferire la residenza fiscale all’estero per avvantaggiarsi di sistemi fiscali più favorevoli, beneficiando del ne bis in idem tributario;  
  • laddove, tuttavia, questo trasferimento (a maggior ragione se in c.d. paradisi fiscali) fosse esclusivamente preordinato all’artificiosa di qualunque pretesa tributaria, non potrebbe aversi alcun beneficio fiscale (cfr. nello stesso senso vedi i parr. 170 ss. Commentario OCSE all’art. 29). 

L’operatività delle presunzioni legali ex art. 73 e, dunque, l’accertamento di un’ipotesi di esterovestizione potrebbe far sorgere conflitti di dual residence che si risolvono secondo le regole convenzionali di cui all’art. 4 Modello OCSE, il quale rimanda alla procedura amichevole (mutual agreement procedures) tra gli Stati in contenzioso.  

Ciò che emerge da questa disamina, dunque, è la necessità di una sempre maggiore certezza del diritto, in particolar modo in ambito tributario, con riferimento alle operazioni che è possibile effettuare anche laddove queste comportino un vantaggio fiscale per coloro che le realizzano. 

Quadro normativo

Autorità Fonte Numero Data Link
OCSE Modello OCSE convenzione contro le doppie imposizioni / 21/11/2017 Leggi di più
Corte di Cassazione Sentenza n. 33234/2018 33234 21/12/2018 Leggi di più
Corte di Cassazione Ordinanza n. 4463/2022 4463 11/02/2022 Leggi di più
Corte di Cassazione Ordinanza n. 8297/2022 8297 15/03/2022 Leggi di più
Corte di Giustizia Europea Sentenza della Corte (Grande Sezione) - Causa C-196/04 C-196/04 12/09/2006 Leggi di più
Corte di Cassazione Ordinanza n. 23150/2022 23150 25/07/2022 Leggi di più
Corte di Cassazione Ordinanza n. 11709/2022 11709 11/04/2022 Leggi di più
Corte di Cassazione Ordinanza n. 11710/2022 11710 11/04/2022 Leggi di più
Agenzia delle Entrate Nota protocollo n. 39678/2010 39678 19/03/2010 Leggi di più
Agenzia delle Entrate Circolare n. 312/E/2007 312/E 05/11/2007 Leggi di più
Governo italiano D.lgs. n. 173/2024 173 05/11/2024 Leggi di più

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