La residenza fiscale è lo status giuridico che determina la giurisdizione dello Stato in cui un contribuente è tenuto ad assolvere all’obbligazione tributaria. Tale nozione non è unitaria ma ciascun Stato ne definisce i contorni in base alle proprie regole di diritto. Secondo la giurisdizione italiana, la determinazione della residenza fiscale in Italia o all’estero è essenziale per definire il regime tributario a cui è sottoposto il soggetto passivo. Difatti, l’imposta sul reddito delle persone fisiche si applica a “persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato”, così come statuito dall’art. 2, comma 1 del TUIR (c.d. principio della universalità).
È dunque fondamentale delineare i criteri di attribuzione della residenza fiscale in Italia, al fine di distinguere fra quanti rientrano tra i residenti in Italia — tassati secondo il principio della worldwide taxation — e quanti sono invece considerati non residenti nello Stato — tassati, secondo l’art. 23 TUIR, in virtù del principio di source taxation.
La nozione di residenza fiscale ai sensi dell’art. 2, comma 2 del TUIR
I parametri identificativi della residenza fiscale — enucleati all’art. 2, comma 2 TUIR — sono stati oggetto di recente riforma, a decorrere dal 1° gennaio 2024, che ha parzialmente mutato la fisionomia di tale istituto.
Nell’originaria formulazione dell’art. 2, il legislatore aveva previsto che «[a]i fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile».
A seguito dell’intervento del legislatore. (d.lgs. 27.12.2023, n. 209), si ritengono fiscalmente residenti in Italia le persone fisiche che per la maggior parte del periodo d’imposta (almeno 183 giorni all’anno o 184 giorni in caso di anno bisestile), considerando anche le frazioni di giorno:
- hanno nello Stato la residenza ai sensi del Codice civile, ovvero
- hanno nello Stato il domicilio, da intendersi quale «il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona», ovvero
- sono di fatto presenti nel territorio dello Stato.
Inoltre, ai sensi dell’art. 2-bis, “Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale”. Il novellato art. 2 risponde all’esigenza di armonizzarsi con il quadro giuridico internazionale e i presupposti convenzionali per la definizione di residenza fiscale (cfr. Cass., Sent. n. 20041/2024).
Dalla lettera dell’articolo emerge che il riconoscimento della residenza fiscale può avvenire al ricorrere di una qualsiasi tra le quattro condizioni alternative.
Il carattere di alternatività dei parametri comporta che condizione necessaria e sufficiente è la sussistenza di anche una sola delle quattro condizioni affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia.
Al contrario, si considerano fiscalmente non residenti coloro che non soddisfano nessuna delle suddette condizioni. Questo è quanto ha ripetutamente confermato anche l’Agenzia delle Entrate in vari interpelli (cfr. Risposta n. 50 e n. 55 del 17 gennaio 2023).
È sulla base di accertamenti specifici e ad hoc che si comprova la sussistenza/insussistenza delle condizioni alternative, così come chiarito dalla Circ. 25/E 18.08.2023: «L’accertamento dei presupposti per stabilire la residenza, diversi dal dato formale dell’iscrizione anagrafica, presuppone un riscontro fattuale da eseguirsi caso per caso, al fine di una concreta ponderazione degli elementi che consentono di verificare il luogo di domicilio o di residenza nonché, dall’1.1.2024, la presenza fisica nel territorio dello Stato».
Occorre, quindi, precisare il significato dei termini sopra richiamati.
La residenza ai sensi del Codice civile
L’art. 2 TUIR rimanda alla definizione di residenza di cui all’art. 43 c.c., ai sensi della quale per residenza si intende il «luogo in cui la persona ha la dimora abituale». Essa, secondo la Cassazione (Cass. civ., Sez. I, 01/12/2011, n. 25726 e Cass. civ., Sez. I, Ord., 15/02/2021, n. 3841) «è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, cioè dall’elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall’elemento soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali».
Inoltre, come chiarito già nella Circolare Ministeriale 2 dicembre 1997, n. 304, per configurare la residenza non è necessaria la continuità o definitività della dimora abituale, con la conseguenza che periodi anche prolungati di assenza non ne escludono il radicamento in Italia (Cass. civ., Sez. I, Ord., n. 8982/2023 e Cass. civ., I, Ord., n. 3841/2021). Ciò comporta che può considerarsi residente in un comune italiano anche un soggetto che lavora in un altro Stato, purché mantenga la sua dimora abituale nel comune di residenza e ritorni in quel luogo periodicamente.
Al riguardo, l’amministrazione finanziaria (Circ. 26 gennaio 2001, n. 9/E) ha precisato che: “Deve considerarsi residente in Italia un soggetto che, pur avendo trasferito la propria attività fuori dal territorio nazionale, mantenga il “centro” dei propri interessi familiari e sociali in Italia. Tale circostanza, si concretizza, ad esempio, nel caso in cui la famiglia dell’interessato abbia mantenuto la dimora in Italia durante l’attività lavorativa all’estero”.
Il nuovo “domicilio tributario”
La nozione di domicilio non rinvia più all’art. 43 del Codice civile ma viene ora stabilita autonomamente all’interno dell’art. 2, comma 2 TUIR quale «luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona».
Il TUIR, nella sua nuova formulazione, si discosta dalla definizione civilistica di domicilio, adottando una nozione incentrata non più sulla dimensione economica (“Il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”), bensì su aspetti di carattere personale e familiare.
Ciò ha determinato, da un lato, il superamento di ambiguità legate al precedente articolo 2 TUIR; dall’altro, ha creato una discrepanza tra il diritto tributario e il diritto civile, con il rischio di una frattura tra la nozione generale e quella tributaria. La giurisprudenza sul punto è ancora limitata, si può però partire dalla lettera dell’articolo. Quest’ultimo afferma che, in sede di applicazione della disposizione, rileva esclusivamente l’accezione tributaria di domicilio, escludendo quella ex art. 43 c.c. Tale assunto troverebbe fondamento nel principio “lex specialis derogat generali”, in base al quale la legge speciale prevale su quella generale nella stessa materia.
Nel merito, due sono le questioni da approfondire riguardo alla nuova nozione di domicilio fiscale.
La prima riguarda il significato dell’espressione “luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona”. È stata la Circ. 20/E/2024 a chiarire il significato di tale locuzione: “Nella nozione di “relazioni personali e familiari” si ritiene rientrino sia i rapporti tipici disciplinati dalle vigenti disposizioni normative (come, ad esempio, il rapporto di coniugio o il rapporto di unione civile), sia le relazioni personali connotate da un carattere di stabilità che esprimono un radicamento con il territorio dello Stato (ad esempio, nel caso di coppie conviventi). Parimenti, può assumere rilievo la dimensione stabile dei rapporti sociali del contribuente nella misura in cui risulti da elementi certi, come ad esempio, l’iscrizione annuale a un circolo culturale e sportivo.”
La seconda questione è di carattere applicativo: cosa accade nel caso in cui un soggetto sviluppi relazioni personali e familiari in più Stati? Quale si considera il centro prevalente? Si prenda, ad esempio, il caso di una famiglia di tre componenti: uno dei due coniugi, con il figlio, si trasferisce all’estero mentre l’altro coniuge mantiene la residenza in Italia. In questo caso, quale si considera il centro principale? Situazioni di questo tipo, assai frequenti nella prassi, potrebbero sollevare problemi nell’individuazione della residenza fiscale. Oltre alle indicazioni operative fornite dalla Circ. 20/E, è auspicabile una chiarificazione volta a definire con maggior precisione elementi che circoscrivano la portata dell’interesse familiare.
La presenza di fatto nel territorio dello Stato
Una novità di rilievo del novellato art. 2 riguarda il riconoscimento della presenza di fatto in Italia quale condizione per il riconoscimento della residenza fiscale nel paese.
Come chiarito dalla Circ. 20/E/2024, si tratta di un criterio oggettivo che dà rilievo esclusivamente alla presenza fisica del soggetto nel territorio italiano per la maggior parte del periodo d’imposta, prescindendo da qualsiasi valutazione di tipo qualitativo. È il caso, ad esempio, di una persona che trascorre per studio o vacanza o altre motivazioni non lavorative più di 183 giorni (184 per le annate bisestili) in Italia.
All’art. 2, comma 2 l’inciso “considerando anche le frazioni di giorno” comporta la valenza della permanenza anche non continuativa nel territorio dello Stato, rilevando anche i giorni con soggiorno nel Paese limitato, al di sotto delle ordinarie 24 ore.
L’iscrizione anagrafica nel registro dei residenti: non più presunzione legale assoluta
Il criterio dell’iscrizione del contribuente nell’anagrafe dei residenti per la maggior parte del periodo d’imposta non compare più quale uno dei tre principali criteri elettivi, lasciando il posto alla presenza di fatto della persona fisica nel territorio dello stato. Rimane, comunque, nelle vesti di presunzione legale di residenza fiscale nello Stato.
È qui importante specificare un punto. Si potrebbe sollevare una quaestio circa la definizione del momento in cui un contribuente può considerarsi iscritto nel registro dei residenti in Italia, il c.d. dies a quo: tale qualità si acquisisce al momento della presentazione della dichiarazione da parte del contribuente? Oppure con il completamento della procedura da parte dell’Ufficio anagrafe?
Il D.P.R. 223 del 30 maggio 1989 (art. 18) prevede che l’ufficiale procede alla registrazione della dichiarazione anagrafica entro 2 giorni dalla sua ricezione ma gli effetti di quest’ultima decorrono comunque dalla data di presentazione della dichiarazione stessa. In breve, un contribuente risulta residente in Italia dal momento in cui presenta la relativa dichiarazione all’Ufficio Anagrafe di competenza, indipendentemente dagli adempimenti formali necessari per il completamento della procedura.
In merito a questa novità si è espressa la Circ. 4.11.2024, n. 20/E, specificando come il rimando all’iscrizione del contribuente nell’anagrafe dei residenti vale quale presunzione legale relativa e non più assoluta — e, di conseguenza, contestabile dal soggetto tramite prova contraria documentale, coerente e idonea. La prova formale dell’iscrizione anagrafica cede quindi il passo alla dimostrazione di una situazione fattuale differente oggettivamente rilevabile.
Il novellato comma 2-bis dell’art. 2: introdotta un’ulteriore presunzione legale relativa per i soggetti trasferiti in un paese della “Black List”
Resta immutato il comma 2-bis dell’art. 2 del TUIR in merito alla presunzione legale relativa di residenza in Italia per i cittadini italiani che, pur cancellati dall’anagrafe della popolazione residente, si trasferiscono in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, elencati nel decreto del Ministro delle Finanze 04.05.1999. La lista dei paesi interessati dalla presunzione legale è stata di recente aggiornata dal decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 20 luglio 2023, il quale ha escluso la Svizzera dall’elenco, con efficacia a partire dal 1° gennaio 2024.
È opportuno approfondire il concetto di “trasferimento” all’estero. Il trasferimento della residenza fiscale di un soggetto residente in Italia avviene tramite la cancellazione dello stesso dall’Anagrafe della popolazione residente e la contestuale iscrizione all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero).
L‘iscrizione all‘AIRE ha efficacia a partire dal momento della presentazione della dichiarazione al competente ufficio consolare, ai sensi del comma 9-bis dell’art. 6 della suddetta legge. Tuttavia, affinché una persona fisica venga considerata giuridicamente trasferita all’estero occorre, accanto al requisito formale dell’iscrizione all’AIRE, l’accertamento di una situazione fattuale e oggettivamente riscontrabile di trasferimento del centro di legami personali e familiari all’estero (ex multis, Cass. civ., Sent. n. 19843/2024; Cass. civ., Sez. V, Sent. n. 19484/2016; Cass. civ., Sez. V, Sent. n. 14071/2011).
A proposito di questo particolare regime, la Circ. 20/E/2024 rimanda alla Circ. 140/E/1999, ricordando che per superare la presunzione legale è necessario fornire «la piena dimostrazione, da parte del contribuente, della perdita di ogni significativo collegamento con lo Stato italiano e la parallela controprova di una reale e duratura localizzazione nel paese fiscalmente privilegiato, indipendentemente dall’assolvimento nello stesso paese di obblighi fiscali».
Esclusivamente assolvendo a tali oneri probatori è possibile far venire meno lo status di residenza fiscale in Italia e ottenere lo status di non residente.
Sulla scia di quanto enunciato dall’Agenzia delle Entrate, anche la Suprema Corte (inter alia Cass. civ., V, n. 6081/2019 e Cass. civ., V, n. 6501/2015) riconosce in capo al contribuente il pieno onere probatorio al fine di superare la presunzione legale relativa di residenza fiscale in Italia ex art. 2 comma 2-bis TUIR.
La tassazione alla fonte
La distinzione tra soggetti residenti e soggetti non residenti in Italia risulta essenziale per la determinazione del regime impositivo.
Per i non residenti, il regime tributario è previsto dagli art. 23 e 24 del TUIR, i quali sanciscono che per questi ultimi è imponibile esclusivamente il reddito prodotto in Italia, non applicandosi il c.d. principio della tassazione su base mondiale (c.d. worldwide taxation), bensì il principio di territorialità (c.d. source taxation).
Alla luce dell’art. 3 TUIR, “L’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato […] per i non residenti soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato”. Fondamentale, dunque, la ricostruzione di un nexus fra il reddito ed il territorio dello Stato. Questo è previsto dall’art 23 TUIR:
- localizzazione sul territorio italiano del bene che genera il reddito. Sono tassabili i redditi fondiari, i redditi diversi generati da beni situati sul territorio e le plusvalenze derivanti dalla vendita di talune partecipazioni in società residenti;
- localizzazione dell’attività sul territorio italiano. Risultano quindi imponibili i redditi di lavoro dipendente prestato in Italia e redditi assimilati, i redditi di lavoro autonomo derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato, redditi d’impresa conseguiti da stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti e redditi diversi prodotti nell’esercizio di attività all’interno dello stato italiano;
- residenza in Italia del soggetto che eroga il reddito. Sono quindi tassabili in Italia i redditi di capitale corrisposti dallo Stato, da soggetti ivi residenti o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti, con esclusione degli interessi e altri proventi derivanti da depositi e conti correnti bancari e postali. Analogamente, sono imponibili i redditi derivanti dalla partecipazione in società di persone e soggetti assimilati e in società di capitali che hanno optato per il regime della trasparenza fiscale ai sensi dell’art. 115 TUIR.
Il nesso di cui all’art. 23 deve essere oggetto di una specifica prova. Per alcune categorie di reddito, tuttavia, vi è una presunzione di territorialità ex lege:
- le pensioni, gli assegni ad esse assimilati;
- specifiche indennità di fine rapporto;
- i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente;
- i compensi per l’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi d’impresa nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico;
- i compensi corrisposti ad imprese, società o enti non residenti per prestazioni artistiche o professionali effettuate per loro conto nel territorio dello Stato.
In seguito alla pronuncia della Corte di Giustizia UE n. C-279/9 del 14.2.95 (c.d. sentenza Schumacker) è stata introdotta un’ulteriore categoria di contribuente, i cosiddetti “residenti Schumacker che, pur lavorando in paesi UE diversi da quello di residenza e percependo la maggior parte del loro reddito in tale paese, hanno la residenza fiscale nello stato in cui dimorano abitualmente (caso tipico i lavoratori transfrontalieri).
In questi casi, l’art. 24 comma 3-bis TUIR stabilisce che se il non residente produce in Italia almeno il 75% del reddito complessivo e se la persona non gode nello Stato di residenza di agevolazioni fiscali equivalenti, il reddito prodotto in Italia (quindi la base imponibile) beneficia dello stesso regime di detrazioni e deduzioni previste per i residenti.
La risoluzione dei conflitti in caso di doppia residenza fiscale. Il modello proposto dall’OCSE e le Convenzioni contro la doppia imposizione
La normativa domestica non può prescindere dal coordinamento con le fonti sovranazionali, in virtù del principio di prevalenza delle norme convenzionali su quelle nazionali sancito dall’art. 117, comma 1 Cost. e, in materia tributaria, dall’art. 75 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (cfr. Risposta n. 50/2023 e n. 73/2023), in particolare in materia di doppia imposizione. a tal riguardo va tuttavia precisato che in caso di regime nazionale più favorevole al contribuente si applica quest’ultimo in luogo della norma convenzionale meno favorevole (art. 169 TUIR).
Ipotesi di doppia imposizione si verificano quando:
- una persona fisica risiede in uno Stato ma, contestualmente, produce reddito in un altro (c.d. «conflitto residenza/fonte»);
- una persona fisica risulti avere la residenza fiscale in due Stati (c.d. «conflitto residenza/residenza»).
In caso di conflitto positivo fra giurisdizioni tributarie (potenziale rischio di doppia imposizione) viene in soccorso il diritto convenzionale, ed in particolare vengono in rilievo le convenzioni concluse tra gli Stati contro le doppie imposizioni, solitamente ispirate al modello OCSE (in tal senso Cass., Sent. n. 2878/2024). Contenzioni internazionali in ambito fiscale si possono sollevare per due distinte cause:
- nonostante la presenza di accordi bilaterali contro le doppie imposizioni una delle giurisdizioni esercita il potere impositivo in violazione dell’accordo;
- v’è incertezza circa la corretta applicazione delle norme convenzionali.
L‘art 4 del Modello OCSE, fissa le regole in materia di residenza fiscale e di risoluzione di ipotesi di doppia residenza.
Sebbene il concetto di residenza sia rimesso alle legislazioni dei singoli Stati, i paragrafi 2 e 3 dell’art. 4 Modello OCSE definiscono le c.d. “tie breaker rules” che si attivano nel momento in cui due Stati fanno valere contestualmente la loro potestà impositiva. Tali regole sono funzionali all’individuazione e alla differenziazione giuridica, da una parte, dello Stato di residenza e, dall’altra, dello Stato della fonte.
I parametri — tassativamente elencati al paragrafo 2 — presentano carattere gerarchico e non alternativo (cfr. Cass., Sent. n. 26638/2017), in ordine:
- abitazione permanente
- centro degli interessi vitali
- dimora abituale
- nazionalità
Nel caso in cui le “tie breaker rules” non siano sufficienti a dirimere la controversia, interviene la procedura amichevole (Mutual agreement procedure), regolata dall’art. 25 comma 3 della Convenzione.
La procedura per la risoluzione delle controversie fiscali è così articolata:
- accertamento della doppia residenza fiscale, secondo le regole domestiche dei rispettivi Paesi
- applicazione degli accordi bilaterali contro la doppia imposizione (qualora esistano) tra i due Paesi in lite
- utilizzo delle tie breaker rules
- ricorso alla procedura amichevole (MAP)
Accertato quale stato goda nel caso specifico della giurisdizione fiscale, la doppia imposizione può essere eliminata secondo due modalità:
- esenzione fiscale: uno Stato rinuncia a tassare il contribuente lasciando la competenza all’altro Stato
- credito d’imposta: uno Stato consente al contribuente di detrarre quanto già pagato all’estero dalle tasse dovute
Nella prassi, l’ordinamento giuridico italiano predilige il metodo del credito d’imposta, così come disciplinato dall’art. 165 TUIR.
Nell’eventualità in cui un contribuente sia stato tassato in entrambi i Paesi, questi può intraprendere una procedura per il rimborso. La Cassazione (Cass. Civ., Sent. n. 30779/2023), in un caso di cittadino italiano residente in Svizzera, si è pronunciata in riferimento al riconoscimento del diritto al rimborso e l’accertamento della residenza fiscale all’estero, stabilendo che: “Un soggetto non residente, per ottenere il rimborso delle maggiori imposte pagate in Italia rispetto a quelle previste dalla relativa Convenzione contro le doppie imposizioni, è sufficiente che produca un certificato rilasciato dall’Autorità estera, dal quale si deve evincere la residenza fiscale, senza la necessità che venga attestata la concreta tassazione (o meglio il prelievo)”.
In altre parole, la Corte ha affermato come il diritto al rimborso sia riconosciuto anche in assenza di attestazioni circa il quantum dell’imposizione o dell’avvenuto versamento, bensì è sufficiente la validità del certificato di residenza fiscale all’estero.