Il presente parere ha ad oggetto la verifica di eventuali profili di penale rilevanza nelle condotte di società che
- ottengano l’ingresso nel territorio italiano di un soggetto lavoratore extracomunitario dipendente di una società estera del Gruppo in virtù di un titolo, nello specifico un visto d’affari, che non contempla l’attività per la quale il soggetto extracomunitario viene concretamente distaccato;
- impieghino effettivamente tale soggetto nello svolgimento di attività lavorativa non contemplata dal visto d’affari.
La materia è oggetto di specifica disciplina ad opera del Testo Unico sulla immigrazione (d.lvo 286/1998).
Sulla configurabilità del reato di favoreggiamento della immigrazione clandestina di cui all’art. 12 D.lvo 286/1998
La prima norma che viene in rilievo è rappresentata dall’art. 12 “Disposizioni contro le immigrazioni clandestine”, che prevede una pluralità di reati di favoreggiamento, aventi natura di reati di pericolo.
Il comma 1 punisce
chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona (comma 1).
Il bene giuridico tutelato dalla norma, nella parte in cui criminalizza le condotte relative all’ingresso nello Stato, è quel particolare aspetto dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica connesso al presidio delle frontiere ed alla ordinata regolamentazione del flusso migratorio.
La condotta è a forma libera e può essere quindi integrata da qualunque atto diretto a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato, indipendentemente dal verificarsi dell’evento. Trattandosi infatti di reato di pericolo (o a consumazione anticipata) il reato de quo si perfeziona per il solo fatto che l’agente ponga in essere, con la sua condotta, una condizione, anche non necessaria, teleologicamente connessa al potenziale ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in difetto dei presupposti di legge (Cass. pen., sez. I, 22/05/2014, n. 28819, Pancuni; Cass. pen., sez. V, 21/01/2004, n. 6250, Vasapollo).
Sul piano soggettivo, trattandosi di fattispecie delittuosa, è richiesto il dolo, ossia la coscienza e la volontà di compiere un atto potenzialmente idoneo a procurare l’ingresso illegale dello straniero nel territorio dello stato.
Alla luce di ciò, la giurisprudenza ha ritenuto configurabile il delitto in parola a carico del
datore di lavoro che compia attività diretta, e quindi, anche solo propedeutica e finalizzata od indirizzata, a favorire l’ingresso in Italia di uno straniero non solo nel caso di ingresso clandestino, cioè attuato occultamente, ma anche nell’ipotesi di tentata elusione delle disposizioni del testo unico e, in particolare, in violazione dell’art. 22 d.lg. n. 286 del 1998, e, dunque, anche nei casi in cui il visto d’ingresso sia richiesto ed eventualmente ottenuto fraudolentemente e mediante simulazione dei necessari presupposti […] (così Cass. pen., sez. III, 10/10/2003, n. 40321; in senso conforme Cass. pen., sez. I , 21/10/2004 , n. 49258; Cass. pen., sez. I , 08/05/2002, n. 22741).
Più nello specifico, si registra copiosa giurisprudenza, anche di merito, che ha ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 12 comma 1 allorché i motivi
anche con riferimento a ingressi nel territorio dello Stato dello straniero per finalità diverse da quelle in relazione alle quali quest’ultimo abbia presentato richiesta di visto, mediante false attestazioni o producendo documentazione falsa relativa agli effettivi motivi del soggiorno in Italia (così Cass. pen., sez. I, 15/12/2009, n. 2285; in senso conforme Cass. pen., sez. II, 21/09/2004, n. 40789; Cass. pen., sez. II, 11/12/2003, n. 3406 (1); G.I.P. Napoli, 28/01/2014, n. 187).
Anche da ultimo la Suprema Corte ha ribadito che
È configurabile il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina con riferimento all’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in modo formalmente regolare, ma finalizzato, in realtà, ad una permanenza illegale.” (Cassazione penale sez. I, 05/02/2020, n.15531) (2)
Pertanto, la condotta della società che rediga, al fine del rilascio di un visto d’affari, una dichiarazione d’invito con indicazione del motivo del soggiorno richiesto e dell’attività che dovrebbe essere svolta dallo straniero invitato differenti rispetto al reale motivo del soggiorno e della effettiva attività che lo straniero dovrebbe svolgere, è, dunque, già idonea a configurare il reato de quo.
I successivi commi 3 e 3 ter prevedono specifiche circostanze aggravanti (3).
In virtù del comma 3 della stessa diposizione, la medesima condotta è punita «con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona nel caso in cui:
- il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone;
- la persona trasportata e’ stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale;
- la persona trasportata è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale;
- il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti;
- gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti» (comma 3).
La disposizione può venire in rilievo, nel caso di specie, laddove il fatto sia stato commesso da almeno tre persone in concorso.
Infine, in base al comma 3 ter «[l]a pena detentiva è aumentata da un terzo alla metà e si applica la multa di 25.000 euro per ogni persona se i fatti di cui ai commi 1 e 3:
- sono commessi al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento;
- sono commessi al fine di trame profitto, anche indiretto» (4).
Atteso che, nel caso di specie, l’ingresso (illegale) sarebbe finalizzato all’impiego del soggetto straniero in attività lavorativa (a condizioni economico/salariali verosimilmente agevolate) non parrebbe arduo ipotizzare la configurazione della aggravante rappresentata dal fine del profitto, di cui al comma 3 ter lettera b), con la conseguenza di un sensibile inasprimento delle sanzioni (da un terzo alla metà la pena detentiva; a 25.000,00 euro la sanzione pecuniaria).
La responsabilità penale dell’ente ex lege 231/2001.
Va rimarcato che l’art. 25duodecies del D.Lgs 231/2001 è stato modificato a seguito della promulgazione della L. n. 161/2017 (nuovo Codice Antimafia) che ha introdotto nuovi delitti in relazione all’immigrazione clandestina all’interno del catalogo dei reati previsti dal decreto 231/2001.
In particolare, con l’introduzione di 3 nuovi commi si punisce il reato previsto dall’art. 12 del D.Lgs. n. 286/1998 (Disposizioni contro le immigrazioni clandestine) ai commi 3, 3 bis, 3 ter, 5.
Si tratta di condotte di chi, salvo che il fatto costituisca più grave reato:
promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente; al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo.
Pertanto le fattispecie aggravate di cui all’art. 12 commi 3, 3 bis e 3 ter D.lvo 286/1998 costituiscono altresì (ex art. 25 duodecies D.lvo 231/2001) reati presupposto della responsabilità amministrativa degli Enti derivante da reato. Con la conseguenza che, nell’ipotesi di commissione di taluna delle fattispecie citate, si radicherebbe un procedimento penale non solo a carico delle persone fisiche che hanno materialmente posto in essere la condotta di favoreggiamento (i c.d. vertici apicali della società), ma altresì a carico delle Società di cui gli autori del reato siano soggetti in posizione apicale o sottoposti, per illecito amministrativo.
Le sanzioni sarebbero, nel caso di specie, tanto di natura pecuniaria (da un minimo di Euro 103.200,00 ad un massimo di Euro 1.549.000,00 Euro) quanto di carattere interdittivo (interdizione dall’esercizio dell’attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; divieto di contrattare con la P.A.; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi) per una durata non inferiore ad un anno.
Gli enti sono, quindi, chiamati a valutare l’effettiva rilevanza in relazione al proprio business di tali possibile condotte effettuando uno specifico risk assessment e adottando e/o aggiornando eventualmente i propri Modelli organizzativi, integrando i principi di comportamento e rafforzando i controlli a presidio del rischio di commissione degli illeciti.
Sulla configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico per induzione in errore del pubblico ufficiale ex artt. 48 e 479 c.p.
La condotta della società che rediga, al fine del rilascio di un visto d’affari, una dichiarazione d’invito con indicazione del motivo del soggiorno richiesto e dell’attività che dovrebbe essere svolta dallo straniero invitato differenti rispetto al reale motivo del soggiorno e della effettiva attività che lo straniero dovrebbe svolgere, potrebbe altresì integrare, in concorso con la fattispecie di favoreggiamento (Cass. pen. sez. I, 08/05/2002, n. 22741), la fattispecie di falsità ideologica in atto pubblico per induzione in errore dei funzionari preposti alla formazione e al rilascio dell’atto pubblico ai sensi del combinato disposto degli artt. 48 e 479 c.p. (eventualmente in concorso con lo straniero che materialmente presenta la documentazione).
La fattispecie de qua è, infatti, configurabile nella misura in cui la presentazione di documentazione ideologicamente falsa induca l’ufficio preposto ad attestare erroneamente e dunque falsamente la ricorrenza di uno dei presupposti necessari per ottenere il rilascio dell’atto pubblico, nel caso di specie il visto di ingresso (cfr. Cass. pen. sez. I, 08/05/2002, n. 22741)
Trattasi di reato punito con la reclusione da uno a sei anni.
Sulla configurabilità della fattispecie di cui all’art. 22 d.lvo 286/1998
Qualora, a seguito del rilascio di visto d’affari, il soggetto straniero venisse effettivamente impiegato quale lavoratore subordinato presso una impresa italiana, parrebbe configurarsi altresì il reato di cui all’art. 22 comma 12 D.lvo 286/1998.
La norma, infatti, punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato «[i]l datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato».
Trattasi dunque di disposizione che sanziona l’impiego di lavoratori stranieri (regolarmente assunti o meno) non in regola con il permesso di soggiorno per motivi di lavoro, categoria cui deve necessariamente ricondursi lo straniero munito di visto che non comprenda, come nel caso di specie, lo svolgimento di attività lavorativa.
Si precisa tuttavia che, facendo la norma espresso riferimento al permesso di soggiorno per lavoro subordinato (v. rubrica) e utilizzando l’espressione “alle proprie dipendenze”, sembrerebbero sfuggire all’ambito di incriminazione le condotte di instaurazione di rapporti di lavoro non subordinato che non richiedono, dunque, un permesso rilasciato a tal titolo, come nel caso di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, di lavoro autonomo etc.
Affinché si possa integrare la fattispecie in questione sarà dunque necessario verificare, nel caso di specie, la sussistenza (o meno) di indici sostanziali e concreti (rapporto di sovraordinazione e controllo sull’operato del lavoratore; assenza di autonomia organizzativa etc.) (5) che consentano di ritenere sussistente un rapporto di lavoro subordinato.
Soggetto attivo del citato delitto può essere esclusivamente un “datore di lavoro”, concetto da intendersi tuttavia in maniera estensiva e non meramente formale attraverso il richiamo dei consolidati orientamenti elaborati dal diritto penale del lavoro e dalla giurisprudenza, specie in riferimento alle fattispecie a tutela dell’igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro (6).
Sul piano psicologico, il delitto è punito a titolo di dolo generico, essendo sufficiente la volontà e la consapevolezza di occupare un cittadino straniero irregolarmente presente sul territorio italiano, perché sprovvisto del permesso di soggiorno. Secondo una parte della giurisprudenza è, peraltro, sufficiente il dolo nella forma eventuale incombendo sul datore di lavoro il dovere di esigere e visionare il titolo di soggiorno prima di occupare uno straniero nella attività lavorativa (7).
Nel caso di specie, ferma la necessità di verificare in concreto i rapporti contrattuali in essere tra le società coinvolte, la qualifica di datore di lavoro (con conseguente configurabilità del delitto de quo) potrebbe essere riconosciuta in capo alla società che svolge attività di direzione e controllo sull’operato del lavoratore straniero, anche se impiegato per lo svolgimento di attività temporanea presso altra società, la quale ultima potrebbe, dunque, assumere la veste di mero committente.
Sulla configurabilità della fattispecie di cui all’art. 37 legge 689/81.
Come noto l’art. 37 della legge 689/81 prevede che
[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, il datore di lavoro che, al fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie, omette una o più registrazioni o denunce obbligatorie, ovvero esegue una o più denunce obbligatorie in tutto, o in parte, non conformi al vero, è punito con la reclusione fino a due anni quando dal fatto deriva l’omesso versamento di contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie per un importo mensile non inferiore al maggiore importo fra cinque milioni mensili e il cinquanta per cento dei contributi complessivamente dovuti.
È allora evidente che, qualora il cittadino straniero si accerti svolgere effettivamente un’attività di lavoro subordinato senza il correlato visto di ingresso e conseguente titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato, non potrà che constatarsi anche l’omissione dei contributi INPS per non essere mai stata inviata la dovuta denuncia della posizione del medesimo all’ente contributivo.
Appare dunque assolutamente probabile, ovviamente nel solo caso di superamento della soglia di punibilità che la norma prevede, anche la contestazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 37 legge 689/81 atteso che la stessa – a differenza della limitrofa fattispecie di omesso versamento dei contributi previdenziali – opera a prescindere dell’effettivo pagamento di una retribuzione per lavoro subordinato, come di recente chiarito con la sentenza n. 5042 del 9 febbraio 2021 della Corte di Cassazione. Ribadendo l’orientamento già espresso in precedenza (Cass. sent. n. 56077 del 15/12/2017), con la recente pronuncia la Corte ha confermato che il presupposto del reato
è rappresentato dalla costituzione del rapporto di lavoro […] e non dall’effettiva corresponsione della retribuzione.
Dunque, il momento in cui sorge l’obbligo contributivo e, per l’effetto, quello di effettuare le relative comunicazioni o registrazioni previste dalla legge (come la dichiarazione UNIEMENS), è costituito dall’instaurazione del rapporto di lavoro, attesa l’autonomia di quest’ultimo da quello previdenziale. Tale autonomia, ad avviso della Corte (Cass. sent. n. 56077 del 15/12/2017), trova fondamento nell’art. 2116 c.c., secondo il quale il lavoratore ha diritto alle prestazioni previdenziali anche quando il datore di lavoro non ha versato regolarmente i contributi, nonchè nell’art. 1 legge 389/89, che prevede l’obbligo del pagamento dei contributi a prescindere dal pagamento della retribuzione, costituendo quest’ultima solo l’imponibile sul quale calcolare l’ammontare dei contributi dovuti.
Note
1 – «In tema di immigrazione, la configurabilità del reato di cui all’art. 12 comma 3 d.lg. 25 luglio 1998 n. 286 non è esclusa dal fatto che lo straniero di cui si intenda procurare l’ingresso nel territorio italiano sia munito di passaporto e di visto d’ingresso, quando risulti accertato che detto visto è stato ottenuto mediante false attestazioni o documentazioni, per una finalità diversa da quella effettivamente perseguita».
2 – In Riv. Cassazione Penale 2020, 11, 4269. Giurisprudenza costante (cfr. Sez. I, 26 novembre 2013, n. 50895, in C.E.D. Cass., n. 258349; Sez. I, 10 ottobre 2007, n. 42985, in questa rivista, 2008, p. 3029; Sez. VI, 16 dicembre 2004, n. 9233, ivi, 2006, p. 1566).
3 – Cass. pen., sez. un., 21/06/2018, n. 40982: «[l]e fattispecie previste nell’ articolo 12, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 configurano circostanze aggravanti del reato di pericolo di cui al comma 1 del medesimo articolo».
4 – «Per “profitto indiretto” deve intendersi un’aspettativa di arricchimento anche non economica ma comunque identificabile in un vantaggio apprezzabile, non necessariamente connesso all’ingresso contra ius dello straniero favorito» (Cass. pen., sez. I , 19/03/2013 , n. 15939).
5 – Cfr. sul punto, Tribunale, La Spezia, 28/03/2013, n. 276: «Risponde del reato di occupazione di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, non solo colui che provvede direttamente all’assunzione, ma anche chi, pur non avendo agito direttamente in tal senso, se ne avvalga, esercitando compiti di sovraordinazione e controllo sull’operato dei medesimi, non rilevando che il rapporto di lavoro sia occasionale o a tempo determinato». «Integra la fattispecie contestata di assunzione non autorizzata di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, anche l’assunzione di un manovale per il lavoro di un solo giorno, nulla rilevando che il rapporto di lavoro sia occasionale se caratterizzato dalla prestazione da parte di persona subordinata e priva di autonoma organizzazione».
Tribunale, Nocera Inferiore, 03/10/2011, n. 1414: «In tema di norme in materia di soggiorno di cittadini extracomunitari deve intendersi con il termine datore di lavoro chiunque assuma alle proprie dipendenze una persona per svolgere attività lavorativa subordinata; all’uopo costituisce indice del rapporto di subordinazione l’uso non occasionale ma continuativo, anche in località distanti da quello di residenza, di un mezzo intestato al datore di lavoro».
6 – Cass. pen., sez. I, 04/04/2003, n. 25665: «Ai fini del reato previsto dall’art. 22, comma 10, d.lg. 25 luglio 1998 n. 286 – che punisce l’assunzione di cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno – il “datore di lavoro” non è soltanto l’imprenditore o colui che gestisce professionalmente un’attività di lavoro organizzata, ma anche il semplice cittadino che assume alle proprie dipendenze una o più persone per svolgere attività lavorativa subordinata di qualsiasi natura, a tempo determinato o indeterminato, come nel caso di collaboratrici domestiche o badanti».
Cass. pen., sez. IV, 16/04/2013, n. 31288: «La fattispecie prevista dall’art. 22 comma 12 d.lg. 25 luglio 1998 n. 286, che punisce l’occupazione alle proprie dipendenze di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, è un reato proprio che può essere commesso solo dal datore di lavoro (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato a carico del committente opere edilizie affidate ad una persona che ebbe personalmente ad ingaggiare il lavoratore extracomunitario)».
7 – Corte appello, Trento, 17/07/2017, n. 189.