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Assunzione lavoratori extracomunitari non in regola: stretta della Cassazione

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La Cassazione ha rafforzato i controlli sui lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno, obbligando le aziende a rispettare le normative sull’immigrazione per evitare rischi penali e sanzioni.

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Un tema di stringente attualità

Il susseguirsi di gravi infortuni sul lavoro ha avuto un’enorme eco mediatica. Sempre più spesso le vittime sono cittadini stranieri, spesso non in regola né con le norme sul soggiorno né con quelle sulla sicurezza del lavoro. A ciò si aggiunge l’attenzione crescente verso i fenomeni migratori di massa. Questi fattori hanno determinato un forte inasprimento dei controlli e delle sanzioni legate all’assunzione di lavoratori extracomunitari non conformi, in senso ampio, alla normativa vigente.

Molto frequentemente il lavoro svolto da cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno regolare si accompagna a gravi violazioni delle norme su sicurezza, igiene, disciplina e assicurazione del lavoro. Per questo motivo, negli ultimi tempi gli organi di vigilanza hanno intensificato sia la frequenza che la severità dei controlli in entrambi gli ambiti.

Questo processo è avvenuto anche per effetto di una normativa che, da un lato, ha aggravato le sanzioni già esistenti. Dall’altro lato, ha introdotto nuove fattispecie sanzionatorie, spesso di natura penale. Si pensi, ad esempio, al reato di caporalato o alla reintroduzione della sanzione penale per le violazioni in materia di distacco o appalto di personale.

Anche la giurisprudenza non è rimasta indifferente al fenomeno. L’aumento dei casi sottoposti ai giudici ha portato non solo a un fisiologico incremento delle pronunce, ma anche a un evidente irrigidimento interpretativo, orientato verso un maggiore rigore sanzionatorio.

In questo contesto diventa imprescindibile richiamare i datori di lavoro alla necessità di una rigorosa compliance aziendale. Essa deve assicurare il puntuale rispetto della normativa sia in materia di ingresso e permanenza dei cittadini extracomunitari in Italia, sia riguardo alla sicurezza, igiene e disciplina del lavoro in senso stretto.

Il recente arresto della Cassazione

Con la recentissima sentenza n. 37866 del 15 ottobre 2024 la prima sezione penale della Cassazione è tornata ad occuparsi del tema dell’assunzione di lavoratori extracomunitari privi del permesso di soggiorno

Il caso esaminato dalla Cassazione nella vicenda specifica riguardava un soggetto che, in primo grado, era stato condannato, come datore di lavoro, ai sensi dell’art. 22 T.U. Immigrazione per aver assunto una cittadina di origine moldava, priva del permesso di soggiorno, destinata ad assistere i propri genitori anziani. 

In Appello la decisione era stata ribaltata, in quanto la Corte aveva ritenuto che la qualifica di datore di lavoro poteva essere attribuita solo all’anziano padre che provvedeva anche al pagamento della retribuzione, ma la Procura aveva poi presentato ricorso per Cassazione avverso la sentenza di proscioglimento. 

Pronunciandosi definitivamente, la Corte ha annullato la decisione, con rinvio. Ha affermato che è datore di lavoro, ai sensi dell’art. 22,comma 12, del D.L.vo n. 286/1998, anche il semplice cittadino che assume per sé, o che recluta per altri, lavoratori privi di permesso di soggiorno. Nel caso di specie, l’imputato ha tenuto un comportamento attivo: ha contattato la badante e, di fatto, l’ha assunta per assistere i genitori in gravi condizioni di salute. Si era riservato di regolarizzare il rapporto in un momento successivo, cosa che però non è mai avvenuta.

Un ampio concetto di datore di lavoro al fine dell’applicazione della norma incriminatrice

La decisione, che richiama anche una precedente sentenza conforme, riconosce che l’art. 22, comma 6, configura sì un “reato proprio”, commesso quindi solo dal datore di lavoro. Tuttavia, tale qualificazione non deve essere intesa in senso formale. È sufficiente che la prestazione del lavoratore extracomunitario si svolga nell’interesse e sotto la direzione dell’agente. Nel caso concreto, ciò avveniva in capo al figlio degli anziani genitori.

Peraltro secondo consolidata giurisprudenza, sempre della Cassazione:

“Risponde del reato di occupazione di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ai sensi dell’art. 22, comma 12, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, il datore di lavoro che li impieghi per sé o li recluti per consentirne l’impiego presso altri” (Sez. 1, n. 12686 del 22/02/2023, Paglianiti, Rv. 284352; Sez. 1, n. 25615 del 18/05/2011, Fragasso, Rv. 250687). 

Siamo dunque di fronte al consolidarsi di una nozione ampia di datore di lavoro come possibile soggetto attivo del reato previsto dall’art. 22 T.U. Immigrazione. Tale nozione comprende non solo il privato cittadino che assuma una badante per i propri genitori, ma anche chi utilizzi lavoratori extracomunitari per impiegarli presso di sé o presso terzi. Rientra inoltre chiunque ne diriga o controlli, anche di fatto, l’impiego o l’utilizzo.

Il conseguente necessario massimo rispetto per la normativa che disciplina l’ingresso e l’assunzione dei lavoratori extracomunitari

Ne consegue la stringente necessità per le aziende di operare con un ancor più stringente rispetto della normativa in tema di immigrazione allorché si dia ingresso o si ricorra all’assunzione di lavoratori extracomunitari per rendere una prestazione lavorativa. 

Come noto, infatti, l’art. 22 comma 12 D.lvo 286/1998 punisce

«[i]l datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato». 

A titolo esemplificativo, si consideri il caso – non raro – di un’impresa che ottenga il rilascio di un visto d’affari per uno straniero che venga poi utilizzato come lavoratore subordinato presso un’impresa italiana terza rispetto a quella richiedente. In una simile situazione potrebbe configurarsi la contestazione del reato di cui all’art. 22 T.U. Immigrazione non solo nei confronti dell’azienda presso cui viene svolta l’attività lavorativa, ma anche verso la società che ha ottenuto il visto d’ingresso per affari.

La necessità di una compliance aziendale per l’impiego di lavoratori stranieri onde evitare rischi penali per la società e l’intero C.d.A.

I controlli sempre più frequenti e stringenti, l’introduzione di nuove fattispecie di reato e gli inasprimenti sanzionatori in uno con un’interpretazione giurisprudenziale sempre più rigorosa impongono pertanto alla impresa l’adozione di una compliance aziendale in tema di assunzione di lavoratori extracomunitari che garantisca il rispetto della vigente e articolata normativa. 

Tutto ciò al fine di escludere ovvero minimizzare i rischi penali sia in capo ai vertici apicali della azienda che in capo alla stessa società ai sensi delle legge n. 231/2001

È appena il caso di ricordare come, sempre secondo un recentissimo orientamento della Cassazione penale (06 novembre 2024 n°40682), anche in presenza di deleghe di gestione e di funzioni qualora vi sia una totale assenza di programmazione e sistematica violazione delle regole e delle norme vigenti sia chiamato a rispondere della trasgressione delle norme penali non solo il soggetto delegato, ma tutti i membri del Consiglio di amministrazione della società. 

Imprescindibile dunque a salvaguardia della responsabilità penale di ogni componente del Consiglio di amministrazione l’adozione di una adeguata compliance aziendale anche in tema di ingresso e impiego di lavoratori stranieri sul territorio nazionale.  

Avv. Enrico Fontana

Studio Legale Fontana, Modena

Quadro normativo

Autorità Fonte Numero Articolo Data Link

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