Con l’Ordinanza n. 24697 del 11 agosto 2022, la Corte di Cassazione, sez. Lavoro Civile, ha stabilito che, in base alla Convenzione dell’Aja sull’abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri, la dispensa dalla legalizzazione del certificato estero è condizionata al rilascio, da parte dell’autorità designata dallo Stato di formazione dell’atto, di apposita “Apostille”, da apporre sull’atto stesso.
Il contesto normativo
La Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 ha dispensato gli Stati contraenti dalla legalizzazione degli atti cui si applica la Convenzione e che devono essere prodotti sul proprio territorio. L’ambito di applicazione della Convenzione riguarda nello specifico gli atti pubblici che devono essere prodotti sul territorio di uno Stato contraente.
Di seguito, una panoramica degli atti pubblici oggetto della Convenzione:
- i documenti emananti da un’autorità o da un funzionario sottoposto ad una giurisdizione dello Stato, compresi quelli che emanano dal Ministero pubblico, da un cancelliere o da un usciere di giustizia;
- i documenti amministrativi;
- gli atti notarili;
- le dichiarazioni ufficiali, quali menzioni di registrazione, visti per data certa e certificati di firma, posti su un atto privato.
Tuttavia, la Convenzione dell’Aja non si applica:
- ai documenti compilati da agenti diplomatici o consolari;
- ai documenti amministrativi concernenti direttamente un’operazione commerciale o doganale.
Di conseguenza, l’unica formalità richiesta per attestare la veridicità della firma, il titolo in virtù del quale il firmatario ha agito e, ove occorra, l’autenticità del sigillo o del bollo onde l’atto è munito, è l’apposizione della apostille, rilasciata dall’autorità competente dello Stato dal quale emana il documento.
Ciò nonostante, l’apposizione della postilla non può essere richiesta qualora le leggi, i regolamenti o gli usi vigenti nello Stato in cui l’atto è prodotto, oppure un’intesa fra due o più Stati contraenti, l’escludono, la semplificano o dispensano l’atto dalla legalizzazione.
I fatti dell’ordinanza
Nel caso oggetto dell’ordinanza n. 24697 del 11 agosto 2022, ad una lavoratrice, operaia addetta alle pulizie (II livello CCNL), era stata contestata da parte del datore di lavoro presso cui era impiegata dal 2008, l’assenza ingiustificata dal 1 settembre al 19 ottobre 2016. Pertanto, la stessa dipendente era stata licenziata per motivi disciplinari senza preavviso. L’azienda le ha contestato la circostanza di non avere avvisato i suoi superiori e di non avere giustificato validamente la sua assenza.
Nel periodo in contestazione, infatti, la lavoratrice si trovava in Marocco e, a giustificazione della propria assenza, aveva inviato al datore di lavoro due certificati medici, debitamente tradotti in italiano, ma privi della “Apostille”, ossia della formalità richiesta dalla Convenzione dell’Aja ai fini di attestare la veridicità della firma sull’atto, il titolo in virtù del quale l’atto era stato firmato e l’autenticità del sigillo o del bollo.
In un primo momento, La Corte d’Appello aveva dichiarato illegittimo e annullato il licenziamento della dipendente, ordinando al datore di reintegrarla nel posto di lavoro. Infatti, la Corte distrettuale di Firenze ha rilevato che i certificati medici rientravano tra gli atti pubblici per i quali, ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1961, non si rendeva necessaria la legalizzazione. Inoltre, la Corte riteneva che la mancata legalizzazione dei certificati medici non poteva essere imputata a negligenza della lavoratrice in quanto la Convenzione dell’Aja era stata recepita dal Marocco il 14.8.2016, solo pochi giorni prima della malattia in questione.
La sentenza della Corte di Cassazione: Apostille necessaria sui certificati medici stranieri
La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 11 agosto 2022, n. 24697, ha ritenuto che in tema di licenziamento per assenza ingiustificata del lavoratore, il certificato medico redatto all’estero da un medico straniero, privo della Apostille, ossia della formalità richiesta dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, o, in alternativa, della legalizzazione a cura della rappresentanza diplomatica o consolare italiana locale, non ha valore giuridico in Italia, ed è, pertanto, inidoneo a giustificare l’assenza dal lavoro.
Nella pronuncia, la Cassazione considera fondati i motivi di ricorso della società, sottolineando che la Apostille è necessaria in quanto certifica la provenienza dell’atto da un soggetto abilitato allo svolgimento della professione sanitaria, quanto la diagnosi e la prognosi di malattia come attestate da un soggetto competente.
L’Apostille è quindi una certificazione che incide sulla autenticità formale e sostanziale di un documento da utilizzare con valore giuridico in un Paese straniero.
La Corte ha precisato già in passato che, “in base alla Convenzione sull’abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri, adottata a l’Aja il 5 ottobre 1961, e ratificata dall’Italia con legge n. 1253 del 1966, la dispensa dalla legalizzazione è condizionata al rilascio, da parte dell’autorità designata dallo Stato di formazione dell’atto, di apposita “Apostille”, da apporre sull’atto stesso, o su un suo foglio di allungamento, secondo il modello allegato alla Convenzione, con la conseguenza che, in assenza di tale forma legale di autenticità del documento, il giudice italiano non può attribuire efficacia validante a mere certificazioni provenienti da un pubblico ufficiale di uno Stato estero, pur aderente alla Convenzione”.