La dichiarazione delle attività finanziarie detenute all’estero rappresenta una questione di notevole rilevanza nel sistema tributario italiano. Tale disposizione ha infatti lo scopo di garantire un controllo sui movimenti di valuta e, di conseguenza, sulla capacità contributiva del contribuente.
La Cassazione nella recente sentenza n. 28077/5 del 2024 del 30/10/2024 ha pertanto stabilito che l’omissione dell’adempimento non deve essere considerata una violazione meramente formale, ma piuttosto un’infrazione sostanziale che ha implicazioni dirette sul sistema di monitoraggio fiscale.
Il contesto normativo
Ricordiamo che l’art. 4 del Decreto-legge del 28.6.1990 n. 167 ha inizialmente istituito l’obbligo di dichiarazione degli investimenti detenuti all’estero per i soggetti passivi come definiti dal medesimo articolo, tra cui le persone fisiche.
Il comma 2 dello stesso articolo istitutiva l’obbligo di indicazione in dichiarazione dei redditi dell’ammontare dei trasferimenti da, verso e sull’estero che nel corso dell’anno hanno interessato gli investimenti all’estero e le attività estere di natura finanziaria. La violazione di tale obbligo è punita ai sensi dell’articolo 5, comma 5, con sanzioni che variano dal 5% al 25% dell’importo non dichiarato.
Il caso esaminato dalla Corte
Nella sentenza n. 28077/2024, la Corte di Cassazione si è occupata di un caso in cui un contribuente non aveva compilato il quadro RW della dichiarazione dei redditi per gli anni 2005-2008, omettendo di dichiarare le consistenze estere.
Secondo la difesa del contribuente, si tratterebbe di una violazione meramente formale, in quanto non avrebbe arrecato danno all’Erario. Tuttavia, la Corte ha respinto tale argomentazione, sottolineando che la mancata dichiarazione non può essere considerata una semplice irregolarità formale. Invece, costituisce un atto che compromette l’efficacia del sistema di controllo fiscale. Tale violazione, quindi, è considerata sostanziale e rilevante a fini sanzionatori.
Le motivazioni della Corte
La Corte ha sottolineato che l’obbligo di dichiarare le attività finanziarie all’estero risponde a un’esigenza primaria di trasparenza e monitoraggio dei flussi finanziari. La ragione sottesa alla disposizione normativa è quella di prevenire l’occultamento di capitali e di garantire la corretta applicazione delle imposte dovute, indipendentemente dal fatto che l’omissione comporti o meno un danno immediato all’Erario.
Il confronto con la giurisprudenza europea
La sentenza ha anche respinto i richiami alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. In particolare, ha respinto la causa C-788/19, Corte Giustizia, 27/01/2022, Commissione Europea/Regno di Spagna, in cui veniva contestata la sproporzione delle sanzioni previste dalla normativa spagnola.
La Cassazione ha ribadito che, a differenza del regime spagnolo, la normativa italiana prevede sanzioni proporzionate, variabili dal 5% al 25%, e applicate nella misura minima quando appropriato, escludendo quindi un’analogia diretta con la giurisprudenza comunitaria.
Il rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato
Un altro aspetto rilevante della sentenza è il richiamo al rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. La Corte ha evidenziato come, nel processo tributario, il giudice debba limitarsi a decidere sui motivi specificamente dedotti dalle parti, senza estendere la propria valutazione a questioni non sollevate. Questo principio garantisce che il contenzioso resti circoscritto alle richieste e alle contestazioni effettivamente presentate.
Le implicazioni pratiche
Questa sentenza ha importanti implicazioni per i contribuenti italiani. Il principio affermato chiarisce che l’omessa dichiarazione di attività finanziarie estere non può essere sottovalutata o trattata come una semplice formalità priva di effetti. L’omissione non solo espone il contribuente a sanzioni significative, ma evidenzia anche la necessità di un approccio rigoroso nella gestione delle proprie dichiarazioni fiscali.
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